Amministratore infedele: alla società il risarcimento dei danni per indebito utilizzo di “Opportunità di affari”

25/05/2022

Amministratore infedele: alla società il risarcimento dei danni per indebito utilizzo di “Opportunità di affari”
A cura di Nicolò Pavan

Il Tribunale di Brescia, con l’ordinanza del 23 luglio 2021, per la risoluzione del caso in esame, concernente l’appropriazione, da parte dell’amministratore di una società, di una opportunità d’affari strategica della quale è venuto a conoscenza in virtù della carica sociale da lui ricoperta, richiama il quinto comma dell’art. 2391 c.c., il quale obbliga l’amministratore che utilizzi a vantaggio proprio o di terzi dati, notizie od “opportunità d’affari” – meglio note come “corporate opportunities” - appresi nell’esercizio del suo incarico, a rispondere dei danni che siano derivati alla società dalla suddetta condotta.

L’istituto affonda le proprie origini nei sistemi di common law, ove è coniato come appropriazione di “corporate opportunities” e ove il tradimento del dovere fiduciario suscita una reazione particolarmente dura dell’ordinamento, comportando, a parte i rimedi demolitori, la retrocessione a favore del principal di qualsiasi profitto conseguito dal fiduciary, nonché, sul piano reale, l’attrazione del medesimo profitto all’interno di un constructive trust a favore del principal.

Tuttavia, il Legislatore italiano ha scelto di non recepire una simile forma rimediale, pur mostrando di ritenere necessarie forme eccezionali di tutela ispirate alla regola del disgorgement of profits; in breve, rimedio che consiste nello spogliare l’agent a favore del principal di tutto il guadagno illegittimamente percepito tramite l’azione infedele, in base alla presunzione che l’agent non lo avrebbe realizzato se il principal non gli avesse conferito l’incarico. Si tratta di uno strumento di tutela dei rapporti fiduciari contro arricchimenti ingiustificati del soggetto che tradisce la fiducia o ne abusa, dotato di una spiccata funzione di deterrence.

Nel caso in esame, l’amministratore, agendo all’insaputa della socia e degli altri membri del CdA, si sarebbe appropriato per il proprio interesse e per quello della moglie, di un’opportunità di affari, strategica per l’attività della società di cui è amministratore e della quale è venuto a conoscenza proprio in virtù della carica sociale da lui ricoperta.

La società ricorrente ha chiesto in via principale il sequestro giudiziario ex art. 670 n. 1 c.p.c. del marchio societario e della domanda di nuovo marchio oltre alle quote rappresentative la maggioranza di alcune società facenti capo ad una società riconducibile all’amministratore. I resistenti, patrocinati singolarmente ma con difese sostanzialmente sovrapponibili, hanno eccepito, in via pregiudiziale, l’incompetenza territoriale del giudice adito. Nel merito, hanno chiesto il rigetto del ricorso, ritenuto infondato in fatto e in diritto.

L’ordinanza reclamata ha, in via pregiudiziale, confermato la competenza funzionale del tribunale adito, ritenendo che le parti, anche nell’ambito della domanda di sequestro giudiziario, controvertono pur sempre in ordine ad una fattispecie, quella di cui all’art. 2391, comma 5, c.c., che costituisce una species del genus “azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore”, attratta in quanto tale alla competenza delle Sezioni specializzate.

Il giudice designato ha, in primo luogo, escluso la configurabilità di una controversia sul possesso o sulla proprietà del marchio e delle partecipazioni sociali oggetto di ricorso, ritenendo, nei limiti cognitivi propri della fase, che la società ricorrente non possa legittimamente vantare diritti su tali beni, non essendo intervenuto tra la stessa e i precedenti proprietari un negozio giuridico, ad effetti reali od obbligatori, idoneo a fondare le pretese di merito anticipate con il ricorso cautelare ed essendo il risarcimento in forma specifica, nei termini prospettati da ricorrente e intervenuta, precluso dal disposto dell’art. 2908 c.c. che riserva ai casi espressamente previsti dalla legge le ipotesi in cui il provvedimento giudiziale può produrre effetti costitutivi.

Il giudice ha valutato le condizioni economiche dell’operazione conclusa, ritenendo del tutto verosimile che le stesse siano state profondamente influenzate da rapporti personali tra le parti, al punto da domandarsi se la causa di cessione della proprietà delle quote contro prezzo non sia contaminata da profili di liberalità. Tuttavia, ha concluso ritenendo che il tipo di pregiudizio lamentato dal ricorrente non è conseguenza diretta dell’operato dell’amministratore, bensì della posizione di netta chiusura del terzo contraente.

In merito al mancato riconoscimento nei confronti della società ricorrente della tutela risarcitoria in forma specifica, secondo la medesima società, ora reclamante, l’ordinanza avrebbe mancato di considerare che il diritto alla restituzione/trasferimento dell’affare oggetto di indebita appropriazione da parte dell’amministratore infedele, potrebbe discendere dall’applicazione dell’art. 1706 c.c. in tema di mandato. Infatti, l’amministratore, quale soggetto che gestisce beni altrui, sarebbe tenuto a restituire al proprio mandante quanto acquistato nell’esercizio delle sue funzioni, nel caso in esame l’affare procurato, e poiché i frutti di tale affare sono oggi nella piena disponibilità giuridica e materiale dell’amministratore e dei suoi concorrenti nell’illecito, non vi sarebbero ostacoli al loro ri-trasferimento in favore della società mandante pretermessa, contro rimborso dei relativi costi, secondo quanto contemplato dall'art. 1720, primo comma, c.c.. La titolarità in capo al mandante dell’azione ex art. 2932 c.c. nei confronti del mandatario consentirebbe di ottenere pronuncia costitutiva senza alcuna incompatibilità con l’art. 2908 c.c.

Sempre secondo quanto sostenuto dal reclamante, il giudice avrebbe errato nel ritenere insussistente il nesso di causa tra la perdita dell’affare e la condotta dell’amministratore, dovendo tale nesso essere vagliato secondo un criterio logico e non naturalistico. Infatti, ipotizzando il corretto percorso logico-giuridico e immaginando come compiuta la condotta omessa, ovvero la comunicazione dell’informazione della volontà di vendere dei signori, si può presumere che la vendita si sarebbe potuta effettuare con la società con più alta probabilità.

Tuttavia, i motivi di reclamo non hanno trovato accoglimento, e il Tribunale di Brescia ha ritenuto corretta l’interpretazione dell’art. 2391, quinto comma, c.c. data dal primo giudice. In particolare, il giudicante ha ritenuto che: i) l’art. 2391, quinto comma, c.c. non prevede una sanzione reale in caso di sua violazione ma si limita ad obbligare l’amministratore a risarcire i danni che siano derivati dalla condotta antidoverosa; ii) tra la società reclamante e i precedenti proprietari non è intercorsa la stipulazione di un negozio giuridico avente effetti reali od obbligatori idoneo a fondare le pretese restitutorie o rivendicatorie della stessa reclamante; iii) l’art. 2908 c.c. riserva ai casi espressamente previsti dalla legge le ipotesi in cui il provvedimento giudiziale può produrre effetti costitutivi.

La dottrina ha espresso opinioni divergenti sulla portata innovativa o meno (e sul quantum di novità) del precetto introdotto dal legislatore della riforma nell’ultimo comma dell’art. 2391 c.c., taluni autori ritenendola una innovazione tutto sommato apparente, in quanto mera specificazione del più generale dovere di lealtà già gravante sull’amministratore, dato che ad essa non si accompagnano rimedi specifici, talaltri evidenziando gli aspetti problematici della sussunzione della condotta descritta entro il paradigma generale tratteggiato dall’art. 2392 c.c. prima della novella legislativa, altri ancora valorizzando il contenuto peculiare del novellato dovere informativo.

Si è, in tal senso, sottolineato che, tramite una necessaria operazione di coordinamento della disposizione in parola con quanto prescritto nei precedenti commi dell’art. 2391 c.c., appare evidente come il Legislatore abbia voluto rendere operativo anche per le “corporate opportunities” un meccanismo contrattuale atto a rendere possibile la negoziazione della loro allocazione tra amministratore interessato a sfruttarle personalmente e società amministrata, cui l’opportunità corporate appartiene di regola.

L’amministratore venuto in possesso di informazioni rilevanti su opportunità d’affari che spettano alla società, e interessato a sfruttarle in proprio (o per conto di terzi), dovrà, dunque, rendere la “full disclosure” richiesta dal primo comma, dichiarando anche le proprie intenzioni al riguardo, in modo da instaurare quella dialettica consiliare che, in virtù del secondo comma dell’art. 2391 c.c., dovrà sfociare nella decisione motivata sulla convenienza per la società di avvalersi dell’opportunità d’affare, ovvero di rinunciarvi e di lasciarla all’iniziativa economica dell’amministratore. Il legislatore, dunque, individuerebbe nella piena informazione su ogni aspetto relativo alla situazione di interesse dell’amministratore – in questo caso lo sfruttamento di una certa opportunità di business – la precondizione necessaria affinché le parti possano praticare una soluzione allocativa efficiente e contrattando “ad armi pari”.

L’assoluta maggioranza degli autori è, in ogni caso, concorde nel ritenere che la norma si limiti a prefigurare a carico dell’amministratore “solamente” una responsabilità per i danni che dalla violazione del divieto siano derivati alla società e che questa sia in grado di dimostrare, non introducendo, invece, nell’ordinamento un rimedio di carattere latu sensu reale o idoneo a comportare, così come previsto in altri ambiti o in altri ordinamenti, la condanna dell’amministratore alla riversione dei profitti derivanti dall’opportunità d’affare sfruttata a vantaggio proprio o di terzi.

L’impostazione del quinto comma dell’art. 2391 c.c., secondo il giudicante, va condivisa in quanto conforme al dato normativo e coerente con lo stesso ordinamento, dovendosi tenere ben distinti il piano della natura della tutela apprestata - e la scelta del legislatore italiano di riconoscere nella specie la “mera” tutela risarcitoria - da quello della commisurazione del “danno risarcibile”, la cui difficile determinazione non giustifica, in mancanza di speciali previsioni normative, l’abbandono del principio di corrispondenza tra pregiudizio effettivamente patito e risarcimento necessario a rimuoverne gli effetti economici, tipico della funzione riparatoria che la responsabilità civile è chiamata a svolgere nel nostro sistema giuridico.

 

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