Il Consiglio di Stato spiazza i Curatori: gravano sul Fallimento gli obblighi di smaltimento dei rifiuti prodotti dall’imprenditore fallito

04/06/2021

Il Consiglio di Stato spiazza i Curatori: gravano sul Fallimento gli obblighi di smaltimento dei rifiuti prodotti dall’imprenditore fallito
A cura di Simone Spiazzi

L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 3/2021, irrompe a gamba tesa su un principio che sembrava ormai aver trovato un suo equilibrio nelle aule dei tribunali amministrativi regionali e finanche nelle decisioni del Consiglio stesso, ovvero quello secondo cui il Curatore fallimentare non può essere titolare della legittimazione passiva in relazione alle ordinanze degli enti locali che ordinano la rimozione di rifiuti prodotti dall’imprenditore fallito.

Il caso oggetto di questo inatteso revirement prende le mosse da un atto del Comune di Vicenza di avvio del procedimento di sgombero di rifiuti notificato al curatore di una società fallita, a cui faceva seguito un’ordinanza comunale, impugnata innanzi al TAR del Veneto dal Curatore, che ingiungeva al fallimento di procedere alla rimozione dei rifiuti.

Il TAR accoglieva il ricorso e annullava l’ordinanza impugnata, costringendo il comune ad appellare la sentenza in base alla tesi secondo la quale il Curatore è soggetto all’obbligo di ripristino e di smaltimento dei rifiuti previsto dall’art. 192 d.lgs. n. 152/2006 (Testo unico ambientale, da ora per comodità “TUA”).

La Quarta Sezione, investita della questione che consiste nello stabilire se, a seguito della dichiarazione di fallimento, perdano giuridica rilevanza gli obblighi cui è tenuta la società fallita ai sensi dell’art. 192 TUA, rimetteva il ricorso all’esame dell’adunanza plenaria.

La dirompente conclusione, posta nell’incipit della sentenza in commento, è lapidaria: la presenza dei rifiuti in un sito industriale e la posizione di detentore degli stessi, acquisita dal Curatore dal momento della dichiarazione del fallimento dell’impresa, tramite l’inventario dei beni dell’impresa medesima ex artt. 87 e ss. L.F., comportano la sua legittimazione passiva all’ordine di rimozione.

Il Curatore risulta legittimato non in quanto avente causa del fallito nel trattamento dei rifiuti, e nemmeno in quanto responsabile della condotta di abbandono di rifiuti, ma in quanto detentore del bene immobile inquinato su cui i rifiuti insistono. Su questo postulato si fonda l’impianto argomentativo della sentenza.

In particolare, l’Adunanza giunge a sostenere che “l’unica lettura del decreto legislativo n. 152 del 2006 compatibile con il diritto europeo, ispirati entrambi ai principi di prevenzione e di responsabilità, è quella che consente all’Amministrazione di disporre misure appropriate nei confronti dei curatori che gestiscono i beni immobili su cui i rifiuti prodotti dall’impresa cessata sono collocati e necessitano di smaltimento”.

A sostegno di tale assunto, come riferimento normativo interno viene riportato semplicemente il terzo comma dell’art. 192 TUA, che sancisce l’obbligo di rimozione dei rifiuti e ripristino dello stato dei luoghi in capo al trasgressore o al proprietario, in solido, sempre che la violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, anche ovviamente per condotta omissiva.

Tuttavia, come anticipato, l’Adunanza volge l’attenzione al diritto europeo e, conseguentemente, all’importanza che esso concede alla figura del detentore, definito dall’art. 3, par. 1 punto 6, della direttiva n. 2008/98/CE come la persona fisica o giuridica che è in possesso dei rifiuti (in questo caso dei beni immobili sui quali i rifiuti insistono), non rilevando in tal caso le nozioni nazionali di possesso e detenzione: “ciò che conta è la disponibilità materiale dei beni, la titolarità di un titolo giuridico che consenta (o imponga) l’amministrazione di un patrimonio nel quale sono compresi i beni immobili inquinati”.

Vieni, poi, aggiunto che l’art. 14, par. 1, della direttiva citata, in virtù del noto principio “chi inquina paga”, accolla i costi di gestione dei rifiuti, oltre che al produttore iniziale, anche al detentore.

In altre parole il Consiglio di Stato ritiene, quindi, che il Curatore non sia “proprietario incolpevole” ai sensi dell’art. 192, terzo comma TUA, e che sia anzi senz’altro obbligato, in quanto detentore dei rifiuti, dello smaltimento degli stessi, in virtù di una responsabilità di tipo oggettivo.

Il rilievo che il diritto europeo dà alla figura del detentore – si dice – giustificherebbe, a garanzia del principio “chi inquina paga”, la sopportazione dei costi di gestione dei rifiuti da parte dell’attivo fallimentare dell’impresa che li ha prodotti, poiché, in caso contrario, i costi finirebbero per ricadere sula collettività incolpevole.

Per giungere a questa conclusione, si arriva a sostenere questo assunto: “Poiché l’abbandono di rifiuti e, più in generale, l’inquinamento, costituiscono ‘diseconomie esterne’ generate dall’attività di impresa (cd. “esternalità negative di produzione”), appare giustificato e coerente con tale impostazione ritenere che i costi derivanti da tali esternalità di impresa ricadano sulla massa dei creditori dell'imprenditore stesso che, per contro, beneficiano degli effetti dell'ufficio fallimentare della curatela in termini di ripartizione degli eventuali utili del fallimento”.

La sentenza passa poi a liquidare due questioni sollevate dalla difesa del fallimento.

In primo luogo, viene dedotta l’eventualità che il fallimento sia incapiente rispetto ai costi da sostenere. I giudici rilevano che, in mancanza di risorse, si dovranno attivare gli strumenti ordinari azionabili in tali situazioni: il Comune, “qualora intervenga direttamente esercitando le funzioni inerenti all’eliminazione del pericolo ambientale, potrà poi insinuare le spese sostenute per gli interventi nel fallimento, spese che godranno del privilegio speciale sull’area bonificata a termini dell’art. 253, comma 2, d.lgs. n. 152-2006”.

La seconda questione riguarda la facoltà, rivendicata dalla difesa del fallimento, concessa al Curatore ai sensi dell’art. 42, comma 3 L.F.., secondo cui egli può rinunciare ad acquisire beni che pervengono al fallito durante la procedura fallimentare qualora i costi da sostenere per il loro acquisto e la loro conservazione risultino superiori al presumibile valore di realizzo dei beni stessi.

L’Adunanza non condivide tale considerazione in quanto – si sostiene – l’evenienza prevista dell’art. 42, comma 3 L.F., mera eventualità di fatto riguardante solo la gestione della procedura fallimentare, non incide sul rapporto amministrativo e, in ogni caso, i beni a cui fa riferimento la norma sono solo quelli che entrano nel patrimonio dell’imprenditore dopo la dichiarazione di fallimento e non, come nel caso di specie, i beni (l’immobile inquinato) che risultino di proprietà dell’imprenditore al momento della dichiarazione del fallimento.

La sentenza in commento, in definitiva, scardina la previgente giurisprudenza non senza dare adito a nuovi interrogativi.

Innanzitutto, l’impianto argomentativo sembra sovvertire decisamente il principio su cui lo stesso si fonda. Da “chi inquina paga”, infatti, si passerebbe al principio del “chi detiene paga”1.

Tale punto di vista, poi, si porrebbe in contrasto con la legittimità per il Curatore di optare per la non inventariazione dei rifiuti oppure, sempre in funzione dell’eccesso dei costi di gestione rispetto ai ricavi realizzabili, anche se prima inventariati, con la facoltà di scelta di abbandonarli in quanto beni con valore economico negativo (c.d. derelictio ex art. 104-ter, comma 8)2.

Sempre sul versante del diritto fallimentare, viene da chiedersi da quale momento l’onere di ripristino e di smaltimento ricada sulla curatela, ovvero se dal momento in cui viene pubblicata la sentenza dichiarativa di fallimento, o se dal momento in cui il curatore accetta l’incarico, o, ancora, dal momento in cui vengono apposti dal curatore i sigilli ai sensi dell’art. 84 L.F. ovvero, infine, dal momento in cui viene redatto l’inventario, ai sensi degli artt. 87 e ss L.F.3.

La pronuncia, inoltre, nel preoccuparsi di giungere a conclusioni “filo-eurounitarie”, sembra giungere ad equivoche commistioni tra istituti ben distinti nel Testo unico ambientale: da un lato vi è la disciplina dell’abbandono dei rifiuti, in cui è inserito l’art. 192, e dall'altro la disciplina della bonifica di siti contaminati, contenuta negli artt. 239 ss. del TUA, che espressamente esclude la prima dal suo campo di applicazione (art. 239, c. 2, lett. a TUA).

In ogni caso, si segnala che questo nuovo orientamento dell'Adunanza plenaria è stato confermato dalla più recente sentenza del Consiglio di Stato n. 3575 del 7 maggio 2021, mostrando come sarà difficile, almeno nel breve periodo, giungere ad un “ritorno alle origini”, che per la figura del Curatore al momento appare solo come una speranza lontana.

1 “Le responsabilità del curatore in caso di abbandono rifiuti: sentenze contrastanti o diversi valori costituzionali in gioco?”, G. Vivoli, in AmbienteDiritto.it, Anno XX - Fascicolo 1/2020, p. 17.
2 Ibidem. Rilevato anche in “Le regole per attribuire al curatore la qualifica di “detentore dei rifiuti” e per addossare i connessi oneri economici alla massa fallimentare”, P. Pizza, in Ilfallimentarista.it del 23 marzo 2021, p. 13.
3 Ivi, p. 3.


 

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