La Corte Costituzionale boccia la maxi-sanatoria edilizia introdotta dalla legge “Veneto cantiere veloce”

22/11/2022

La Corte Costituzionale boccia la maxi-sanatoria edilizia introdotta dalla legge “Veneto cantiere veloce”
A cura di Simone Spiazzi
Con sentenza n. 217 depositata in data 21 ottobre 2022, la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 7 della legge della Regione Veneto n. 19 del 30/06/2021 (la c.d. “Veneto cantiere veloce”).
 
L’art. 7 introduceva nella legge della Regione Veneto n. 61 del 27/06/1985 (Norme per l’assetto e l’uso del territorio) l’art. 93-bis, che prevedeva, a determinate condizioni, una sanatoria di natura straordinaria delle irregolarità edilizie degli immobili. L’efficacia sanante derivava sostanzialmente dalla sostituzione, ai fini della documentazione dello stato legittimo dell’immobile, dei titoli indicati dal t.u. edilizia all’art. 9-bis, comma 1-bis con il semplice certificato di abitabilità o agibilità. La Consulta, con la sentenza in esame, ha affermato l’illegittimità costituzionale di questa sostituzione "per contrasto con i principi fondamentali della materia «governo del territorio" dettati dalla norma interposta, ossia l’art. 9-bis, comma 1-bis, t.u. edilizia.

Per meglio comprendere la decisione del Giudice delle leggi, è utile verificare l’ambito operativo e i contenuti della norma interposta ritenuta violata.

Il t.u. edilizia disciplina dettagliatamente i termini e le modalità esecutive dell’attività edilizia prevedendo, inoltre, un articolato sistema sanzionatorio che mira a garantirne l’osservanza. In termini generali, ogni intervento edilizio è sottoposto ad una preventiva autorizzazione dell’ente locale territorialmente competente e, pertanto, lo stato di fatto di un immobile dovrebbe essere correttamente rappresentato nei grafici progettuali allegati al titolo edilizio che ha legittimato l’intervento. In questa prospettiva, la legittimità urbanistica ed edilizia dell’immobile è espressa dal principio di conformità, che definisce la corrispondenza tra lo stato di fatto dell’immobile e l’insieme dei titoli edilizi abilitativi rilasciati in tutta la storia costruttiva dell’edificio, sia come complesso planivolumetrico sia per le singole unità immobiliari.

In altre parole, la validità di un titolo edilizio è strettamente connessa al presupposto dato dalla corretta rappresentazione progettuale dello stato di fatto dell’immobile il quale, oltre che rispondente alla realtà rilevata, deve coincidere con quanto rappresentato e approvato nell’ultimo titolo/progetto assentito dalla P.A.

In assenza di questo presupposto il nuovo titolo verrebbe rilasciato sulla base di una falsa rappresentazione dello stato legittimo dei luoghi – sanzionabile ex art. 34 t.u. edilizia – inficiando, quindi, ogni successivo provvedimento autorizzativo.

Nel tempo, questa certificazione implicita della legittimità dell’immobile, resa dal progettista con la rappresentazione grafica, è stata resa esplicita richiedendo l’espressa dichiarazione di piena conformità della regolarità edilizio-urbanistica del fabbricato.

Con la Modulistica unificata e standardizzata per i titoli edilizi abilitativi, approvata con accordo dalla Conferenza Unificata Governo, Regioni ed Enti locali del 4 maggio 2017, è infatti richiesto al progettista di dichiarare se lo stato attuale dell’immobile risulti conforme o meno alla documentazione dello stato di fatto legittimato dal titolo edilizio. Il tenore della dichiarazione richiesta è alternativo e categorico: conformità piena o difformità, alla quale dovrà necessariamente conseguire un procedimento di sanatoria, salvo il riconoscimento delle c.d. tolleranze costruttive, così come stabilito dall’art. 34-bis t.u. edilizia, che ha introdotto la possibilità, per i tecnici abilitati, di attestare lo stato legittimo dell’immobile con apposita dichiarazione asseverata certificando, laddove necessario, che le eventuali difformità esistenti non costituiscono violazioni in quanto ricomprese nelle tolleranze costruttive (mancato rispetto dell’altezza, dei distacchi, della cubatura, della superficie coperta e di ogni altro parametro delle singole unità immobiliari entro il limite del 2 per cento delle misure previste nel titolo abilitativo).

Infine, il D.L. 76/2020 (c.d. decreto semplificazioni) ha novellato il t.u. edilizia introducendo, al comma 1-bis dell’art. 9-bis, la seguente definizione di stato legittimo dell’immobile: “Lo stato legittimo dell’immobile o dell’unità immobiliare è quello stabilito dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa e da quello che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Per gli immobili realizzati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio, lo stato legittimo è quello desumibile dalle informazioni catastali di primo impianto ovvero da altri documenti probanti, quali le riprese fotografiche, gli estratti cartografici, i documenti d’archivio, o altro atto, pubblico o privato, di cui sia dimostrata la provenienza, e dal titolo abilitativo che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Le disposizioni di cui al secondo periodo si applicano altresì nei casi in cui sussista un principio di prova del titolo abilitativo del quale, tuttavia, non sia disponibile copia.

Il Legislatore, nello stabilire che lo stato legittimo è quello stabilito dall’ultimo titolo abilitativo in ordine di tempo, non ha certo inteso concedergli capacità sanante. A queste conclusioni giunge anche la recente giurisprudenza amministrativa.

Una recente pronuncia ha affermato che il Legislatore “ha inteso semplicemente chiarire che lo «stato legittimo dell’immobile» è quello corrispondente ai contenuti del sottesi titoli abilitativi, relativi non solo alla sua originaria edificazione, ma anche alle sue successive vicende trasformative”. D’altro canto, chiosa il Giudice, “se altro il legislatore avesse inteso stabilire, e cioè se avesse ricollegato portata totalmente abilitante al titolo «che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare», a prescindere dal relativo oggetto […]avrebbe surrettiziamente introdotto una sorta di sanatoria implicita per tutti i manufatti assistiti da (qualsivoglia) titolo abilitativo, seppure non riferibile alla loro integrale consistenza e conformazione” (T.A.R. Campania (SA), sent. n. 1358/2021; allo stesso modo T.A.R. Campania (SA), sent. n. 1577/2021).

Certamente il titolo abilitativo “non può essere invocato per legittimare ex post un’attività abusiva, atteso che esso non risponde alla finalità strutturale di sanare una illegittimità, ma a quella di permettere l’edificazione sulla base dello stato dei fatti vigente alla data del suo rilascio” (T.A.R. Lazio, sent. n. 10910/2021).

In definitiva, la mera rappresentazione dello stato attuale dei luoghi nei grafici progettuali allegati ad una richiesta di permesso di costruire non sana le eventuali irregolarità dello stesso, che potranno invece essere sanzionate ex art. 34 t.u. edilizia e/o fatte oggetto di un procedimento in sanatoria. Piuttosto, l’art. 9-bis, comma 1-bis del t.u. edilizia, in particolare l’ultimo periodo, è stato introdotto al fine di superare i problemi derivanti dal mancato reperimento di un titolo edilizio originario, recependo quanto già invalso in giurisprudenza e nella prassi amministrativa, con l’indicazione puntuale delle fonti documentali probanti volte a ricostruire gli interventi edilizi realizzati sull’immobile. La norma “deve essere pertanto intesa nel senso che, laddove il proprietario fornisca elementi indiretti a riprova della legittimità dell’immobile, spetta poi all’amministrazione dare a sua volta prova dell’inattendibilità di tali elementi, non potendosi far gravare unicamente sulla parte privata le conseguenze del mancato reperimento di un titolo edilizio, peraltro risalente” (T.A.R. Campania, sent. n. 1879/2022).

Ebbene la Consulta, tornando ora alla sentenza in commento, ravvisa nell’art. 9-bis, comma 1-bis, t.u. edilizia un principio fondamentale della materia di legislazione concorrente «governo del territorio». La disposizione regionale oggetto di dichiarazione di incostituzionalità afferisce all’urbanistica e all’edilizia e, pertanto, si ascrive a questa materia.

La disposizione regionale prevede, infatti, due distinte fattispecie e altrettante definizioni del concetto di stato legittimo degli immobili a fini edilizio-urbanistici.

Il comma 1 del citato art. 93-bis riguarda gli immobili oggetto di variazioni non essenziali risalenti a epoca antecedente al 30 gennaio 1977 e stabilisce che, qualora detti immobili siano in proprietà o in disponibilità di soggetti non autori delle variazioni non essenziali e siano dotati di certificato di abitabilità o agibilità, lo stato legittimo «coincide con l’assetto dell’immobile al quale si riferiscono i predetti certificati, fatta salva l’efficacia di eventuali interventi successivi attestati da validi titoli abilitativi».

La norma associa lo stato legittimo dell’immobile a un documento – il certificato di abitabilità o agibilità – che è ben diverso dal titolo abilitativo edilizio, richiesto dall’art. 9-bis, comma 1-bis, t.u. edilizia. Sul punto la Corte rammenta che “già a far data dal 1° settembre 1967 – in base all’art. 31 della legge n. 1150 del 1942, come modificato dall’art. 10 della legge n. 765 del 1967 – chiunque intendesse, nell’ambito dell’intero territorio comunale, eseguire nuove costruzioni, ampliare, modificare o demolire quelle esistenti ovvero procedere all’esecuzione di opere di urbanizzazione del terreno, era tenuto a richiedere apposita licenza al sindaco”.

Peraltro, il titolo abilitativo – ricorda la Corte – era, in effetti, obbligatorio nel periodo e rispetto al tipo di intervento (le variazioni non essenziali), cui si riferisce la disposizione regionale, poiché “la legislazione statale antecedente al 1977 – in particolare la legge urbanistica n. 1150 del 1942, sia nel suo testo originario sia in quello innovato dalla legge n. 765 del 1967 – prevedeva che il committente titolare della licenza, il direttore dei lavori (quest’ultimo a partire dalla disciplina introdotta nel 1967), nonché l’assuntore dei lavori fossero «responsabili di ogni inosservanza così delle norme generali di legge e di regolamento come delle modalità esecutive che siano fissate nella licenza di costruzione» (art. 31, terzo comma, della citata legge, che diviene comma 12 a seguito delle modifiche apportate dalla legge n. 765 del 1967).”

La Consulta fa proprio il ragionamento formulato dalla giurisprudenza amministrativa, secondo la quale il rilascio dei certificati di agibilità non implica affatto un giudizio circa la natura non abusiva delle opere. Infatti, non c’è necessaria identità di “disciplina” tra titolo abilitativo edilizio e certificato di agibilità, che sono collegati a presupposti diversi e danno vita a conseguenze disciplinari non sovrapponibili. In particolare, “il certificato di agibilità ha la funzione di accertare che l’immobile al quale si riferisce è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti (come espressamente recita l’art. 24 del Testo unico dell’edilizia), mentre il rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche è oggetto della specifica funzione del titolo edilizio. Il che comporta che i diversi piani ben possano convivere sia nella forma fisiologica della conformità dell’edificio ad entrambe le tipologie normative, sia in quella patologica di una loro divergenza” (Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 26 agosto 2014, n. 4309; nello stesso senso, sentenze 24 aprile 2018, n. 2456, 22 marzo 2014, n. 1220, nonché sezione quinta, decisione 4 febbraio 2004, n. 365).

La seconda fattispecie è normata dal comma 2 che attiene, invece, agli immobili realizzati in epoca anteriore al 1° settembre 1967 in zone esterne ai centri abitati o alle zone di espansione, previste da eventuali piani regolatori: per tali ipotesi, la condizione di stato legittimo «è attestata dall’assetto dell’edificio realizzato entro quella data e adeguatamente documentato, non assumendo efficacia l’eventuale titolo abilitativo rilasciato anche in attuazione di piani, regolamenti o provvedimenti di carattere generale comunque denominati, di epoca precedente».

Questa seconda fattispecie – argomenta la Corte – “nel dissociare lo stato legittimo dell’immobile dal titolo abilitativo edilizio, apparentemente si correla al secondo periodo dell’art. 9-bis, comma 1-bis, t.u. edilizia, che esclude, ai fini dello stato legittimo, la necessità di tale documentazione per il periodo in cui il titolo edilizio non era obbligatorio”. Sennonché, “pure al di fuori dei centri abitati e delle zone di espansione, nonché prima della legge n. 1150 del 1942, la necessità di un titolo abilitativo edilizio veniva, a ben vedere, disposta anche da altre fonti”. Si fa riferimento all’obbligo imposto dal regio decreto-legge 25 marzo 1935, n. 640 e dal regio decreto-legge 22 novembre 1937, n. 2105 per gli immobili realizzati in comuni ricadenti in zone sismiche e dalla possibilità, per i regolamenti edilizi comunali, di prevedere l’obbligo di previa autorizzazione alla costruzione. Ne consegue che “l’art. 9-bis, comma 1-bis, t.u. edilizia, là dove si riferisce alla obbligatorietà del titolo, abbraccia certamente anche le citate fonti, il che determina il disallineamento dell’art. 93-bis, comma 2, della legge regionale impugnata che, viceversa, ascrive tali casi, in cui era obbligatorio il titolo, alla modalità semplificata di attestazione dello stato legittimo”.

A ciò si aggiunga che il comma 2 “non si limita a riconoscere – ai fini dello stato legittimo – la possibilità di avvalersi di altri documenti in mancanza del titolo edilizio, ma dispone altresì d’imperio la non efficacia di titoli abilitativi rilasciati in adempimento di obblighi previsti da fonti primarie speciali o da fonti non primarie.”

Ne discende l’illegittimità costituzionale anche del comma 2 dell’art. 93-bis, in quanto “compromette le funzioni che la norma statale interposta attribuisce all’attestazione dello stato legittimo”.
 
La declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 7 della legge della Regione Veneto n. 19 del 30/06/2021 ha evidenti risvolti pratici sulle pratiche edilizie da iniziare o ancora in corso alla data del 21 ottobre 2022, data di deposito della sentenza. La pronuncia, infatti, ha effetto retroattivo. L’unico limite è rappresentato dai c.d. rapporti giuridici esauriti, ossia le situazioni giuridiche già consolidate, in conseguenza, ad esempio, di un atto amministrativo non più impugnabile o di una sentenza definitiva.
 
Al contrario, in caso di procedure di interventi edilizi da iniziare o ancora non definiti, è fondamentale far verificare da un professionista le eventuali difformità dallo stato legittimo per procedere eventualmente alla loro sanatoria, sempre che ciò sia possibile. In caso contrario, l’intervento potrà essere assoggettato a sanzioni, che possono arrivare ad avere la portata anche di un dovere di rimessione in pristino, con conseguente demolizione di quanto abusivamente costruito.

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