Punto di vista di Alessandro Morelli

L’internazionalizzazione delle aziende in tempi di Covid 19

Mi è stato chiesto degli Amici della rubrica "Punti di vista..." il mio personale contributo sull'impatto che l’emergenza determinata dalla diffusione del Covid-19 ha avuto sul Paese, in particolare, sulla nostra economia e sui paradigmi su cui essa si è fondata negli ultimi decenni.

Oggi sentiamo spesso parlare di un auspicabile ritorno delle produzioni italiane all’interno dei confini nazionali, mettendo in discussione la crescita che le nostre piccole multinazionali hanno avuto sui mercati mondiali negli ultimi due decenni, sostenuto spesso da importanti investimenti e da uno sforzo di cambiamento culturale e manageriale del nostro sistema industriale, che ha garantito al nostro Paese una importante posizione nell’export mondiale.

Dunque sei mesi di crisi sanitaria, purtroppo ancora non terminata, per una infezione virale ci devono convincere a modificare sostanzialmente il nostro modello di sviluppo basato sulla globalizzazione dei mercati?
Come è arrivato il nostro Paese all’appuntamento con il virus?

Il 2019 è terminato con una forte riduzione del PIL italiano (- 0,3% nel quarto trimestre), come non si vedeva dal 2013, e con previsioni per il 2020 che guardavano ad un concreto rischio di rallentamento dell’economia internazionale.

I dati previsionali OCSE registravano un PIL cinese al 6% nel 2020, valore più basso da oltre un decennio, e crescita della Germania allo 0,4%, con effetti negativi sull’economia europea ed italiana.

Nel nostro Paese i consuntivi della produzione industriale di gennaio e febbraio 2020 e gli ordini per l’industria sono stati positivi per molti settori mentre esplodeva l’epidemia in Cina con effetti diretti sulla nostra economia legati al calo delle forniture dall’Asia.

A marzo lo shock economico arriva in Italia con lo stop delle produzioni considerate non necessarie.

Come hanno reagito le nostre piccole multinazionali spesso, in quel momento, con un buon backlog ordini in portafoglio?

Si sono comportate come multinazionali. Hanno valutato gli effetti dell’epidemia non solo nel nostro Paese, ma nel mondo, nei Paesi in cui avevano stabilimenti produttivi o verso i quali esportavano, dove i diversi livelli degli effetti sanitari ed i diversi provvedimenti dei governi rispetto alle politiche economiche e produttive hanno portato le nostre imprese a prendere decisioni conseguenti per la sostenibilità del proprio business.

Gli ordini sono stati evasi dagli stabilimenti ubicati in Paesi nei quali è stato possibile produrre, e con il fondamentale supporto degli operatori della logistica e dei trasporti le merci sono state recapitate ai clienti ed ai consumatori finali, anche italiani, chiusi nelle loro case.

E’ stato fatto, e si continua a fare, uno sforzo strategico, organizzativo e finanziario rilevante per guidare il continuo riposizionamento delle imprese. Il virus ha colpito i mercati mondiali in modo progressivo, soprattutto le principali economie del mondo. Parte in Cina, si estende all’Asia, arriva in Europa, Italia per prima, poi Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna, e mentre dà segni di indebolimento nel vecchio continente, esplode negli Stati Uniti, ma nel frattempo blocca la Turchia e la Russia, per poi espandersi in America Latina. Tutto questo in tre o quattro mesi, con effetti temporali ancora non del tutto prevedibili, con il rischio di una seconda ondata a breve o nel prossimo inverno.

Nonostante questi enormi problemi le imprese internazionalizzate hanno avuto la chance di trovare spazi, anche se ridotti, nelle pieghe della globalizzazione dei mercati. Possiamo immaginare gli effetti per le imprese presenti su un solo mercato, e magari in quello italiano, con consumi domestici deboli e difficoltà economiche strutturali?

Questa rapida digressione ci porta a formulare la prima considerazione, sulla base della mia esperienza diretta: penso che la crisi economica pandemica in corso non porterà alla decisione del reshoring delle proprie attività internazionali, ma piuttosto al rafforzamento della struttura internazionale delle imprese.

Le prime reazioni che osserviamo guardano a confermare progetti di investimento nei Paesi esteri.

Il grande problema piuttosto riguarderà il cambiamento del concetto di “governance delle strutture internazionali” dei gruppi industriali. Prima d’ora mai avremmo valutato un investimento in rapporto alla capacità di risposta sanitaria di un Paese.  L’attuale crisi sanitaria ha mostrato i limiti ed i pregi dei diversi sistemi Paese, dei governi e delle popolazioni, della capacità di intervenire con normative straordinarie ed urgenti, con interventi efficaci a sostegno dell’economia, della definizione delle priorità in situazioni difficili.

In questo frangente i vertici dei gruppi internazionali si sono trovati di fronte a stabilimenti chiusi in Paesi irraggiungibili, a manager locali inadeguati, a sistemi Paese troppo complessi e farraginosi, all’impossibilità di viaggiare, a deficit di digitalizzazione che non hanno consentito di controllare e gestire le diverse imprese nel mondo. Abbiamo tutti imparato che globalizzazione non significa per definizione mercati aperti, almeno sempre e comunque.
Questa mi sembra, dall’esperienza diretta, la prima strutturale questione che i Gruppi internazionali stanno valutando.

Un altro nodo urgente riguarda il tema della liquidità generabile dalle imprese in questo frangente, e di conseguenza la sostenibilità delle imprese stesse, le decisioni di gestione finanziaria e l’eventuale utilizzo degli strumenti finanziari messi a disposizione dallo Stato attraverso il sistema bancario.

Il secondo problema per il sistema delle imprese nell’attuale situazione riguarda dunque l’impatto della “distribuzione dei prodotti”, con effetto diretto sulla generazione di ricavi e di liquidità.

Le imprese che per prime hanno avuto un effetto negativo sulla liquidità sono state quelle i cui prodotti sono direttamente destinati al consumatore finale per settori non di prima necessità. Produttori di abbigliamento, calzature, articoli sportivi, arredamento, libri hanno visto la chiusura immediata in molti Paesi della loro rete distributiva, in piccola parte coperta dalle vendite online. Questo ha avuto un effetto immediato per imprese di questi settori, anche imprese strutturate ed importanti, che subito hanno dovuto affrontare il tema dei flussi finanziari e, non secondario il tema della sostenibilità delle reti di distribuzione.

L’impressione è che l’onda lunga della mancanza di liquidità si farà sentire tra qualche mese per le aziende che producono semilavorati, sulla base di ordini ricevuti prima della crisi e confermati dai clienti che portano il prodotto finito sul mercato di consumo (si pensi all’automotive) e che sconteranno il crollo delle vendite, e quindi degli ordini ai propri fornitori, con uno sfasamento temporale.

Bene fanno queste imprese a gestire probabili fabbisogni di liquidità programmando per tempo le adeguate coperture.

Per quanto riguarda la nostra esperienza di equity partner nelle operazioni d’investimento, stiamo osservando un richiamo da parte dei co-sponsor al nostro ruolo di soci in iniziative internazionali.  La strategia finanziaria delle imprese con cui ci confrontiamo sta guardando ad una maggiore strutturazione del patrimonio per far fronte agli investimenti ed agli effetti della liquidità, evitando, se possibile, il ricorso ad un maggiore indebitamento delle imprese.

Alessandro Morelli
Resp. Investimenti e portafoglio, Finest SpA

 
Condividi su: linkedin share facebook share twitter share
Sigla.com - Internet Partner