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Limitazioni convenzionali alla concorrenza tra imprese
Limitazioni convenzionali alla concorrenza tra imprese
E’ stato chiesto al dipartimento di
Consulenza Legale e Contrattuale
di valutare se sia possibile inserire nei contratti tra imprese clausole che limitino lo svolgimento di attività concorrenziali per un periodo eccedente il quinquennio previsto dall’art. 2596 c.c.
Da un punto di vista sistematico e ferme restando le limitazioni imposte dalla normativa
antitrust
(il riferimento è, in particolare, all’art. 2 l. 287/1990, che sanziona con la nullità le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, anche attraverso attività consistenti nel fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali, nell’impedire o nel limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, gli investimenti, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico, nel ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento, nell’applicare, nei rapporti commerciali con altri contraenti, condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza, nel subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun rapporto con l’oggetto dei contratti stessi), la disciplina del patto di non concorrenza e, più in generale, delle limitazioni della concorrenza è recata, oltre che dalla disposizione di cui all’art. 2596 c.c., dalle norme inerenti ad alcune specifiche tipologie contrattuali. Si pensi, per esempio:
all’art. 1751-
bis
c.c., che si occupa del patto di non concorrenza nel contratto di agenzia;
agli artt. 2105 e 2125 c.c., i quali attengono al divieto di concorrenza da parte del prestatore di lavoro subordinato, rispettivamente, durante il rapporto (quale conseguenza dell’obbligo di fedeltà) e dopo la sua cessazione (per effetto di apposito patto in tale senso);
all’art. 2390 c.c., che pone un divieto di concorrenza in capo agli amministratori di società di capitali;
all’art. 2557 c.c., che sancisce un divieto di concorrenza in capo a chi aliena l’azienda.
Laddove, quindi, il legislatore non abbia dettato una disposizione
ad hoc
, l’interprete deve senz’altro confrontarsi con l’art. 2596 c.c., a mente del quale il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto, avere una durata non superiore a cinque anni ed essere circoscritto a una determinata zona o a una determinata attività.
Secondo l’opinione prevalente, la disposizione è volta essenzialmente a salvaguardare la libertà individuale degli imprenditori, introducendo limiti alla facoltà di prevedere vincoli perpetui o eccessivamente duraturi a una libertà (quella di iniziativa economica) che l’ordinamento reputa in larga misura rinunciabile; nello stesso tempo, si ritiene che alla norma non sia completamente estraneo pure l’obiettivo di tutelare l’integrità del mercato e l’interesse dei consumatori.
Premesso che il patto di non concorrenza può, di per sé, essere integrato tanto da una pattuizione a sé stante, quanto da una inserita all’interno di un più ampio testo contrattuale, di cui viene a costituire una clausola, è necessario distinguere il caso in cui il patto abbia natura autonoma da quello in cui, invece, rivesta carattere accessorio, ossia verificare se si sia o meno in presenza di uno strumento necessario e indispensabile per la realizzazione della più complessa operazione negoziale cui inerisce e degli interessi con essa perseguiti dalle parti: solo quando tale rapporto di strumentalità necessaria non sussiste, infatti, si ricadrà nell’ambito di operatività dell’art. 2596 c.c. e, dunque, dovrà osservarsi il limite temporale di cinque anni ivi fissato, dal momento che, sulla base di un consolidato orientamento giurisprudenziale, la norma non si applica al patto che, accedendo a più ampi contratti di collaborazione commerciale dei quali viene a costituire elemento fondamentale, non esaurisce la sua funzione nella mera restrizione della concorrenza, quale causa autonoma ed esclusiva dell’accordo limitativo.
Per valutare se si sia in presenza di un patto di non concorrenza autonomo o accessorio, non devono reputarsi decisivi né la sua collocazione (nel senso che non fa, di per sé, differenza il fatto che, anziché integrare un accordo che si esaurisce nella limitazione convenzionale della concorrenza, il patto sia contenuto in un testo diretto a disciplinare una più ampia vicenda negoziale, rappresentando una delle molteplici norme volte a definire l’assetto di interessi voluto dalle parti), né il suo riferirsi a restrizioni di carattere orizzontale piuttosto che verticale (ossia intervenute tra imprenditori in diretta concorrenza tra loro o svolgenti attività diverse e in rapporto di integrazione nella catena del processo produttivo e distributivo), né la circostanza per cui il divieto di concorrenza è destinato a esplicare i propri effetti durante la vigenza del contratto cui accede anziché dopo la sua scadenza.
Avendo esclusivo riguardo a tali indici, infatti, la disciplina legale del patto di non concorrenza si presterebbe a facili abusi ed elusioni, sicché, anche sulla scorta dell’elaborazione maturata nell’ambito della normativa
antitrust
, si è affermato che il patto può ritenersi accessorio quando non sia dedotto nel rapporto negoziale come oggetto di una causa di scambio a sé stante, ma sia strumentale alla realizzazione di quella diversa propria del contratto in cui si inserisce, vuoi come effetto naturale, vuoi come effetto negoziale espressamente voluto dalle parti, diversamente dal caso in cui l’accordo sia essenzialmente diretto a regolare e coordinare le modalità di svolgimento delle reciproche attività per evitare o attutire i rischi connaturati al gioco del libero mercato. Pertanto, tale collegamento può ravvisarsi quando la pattuizione è indissolubilmente legata all’operazione principale, che non potrebbe realizzarsi in assenza della limitazione convenzionale della concorrenza, ponendosi in rapporto di oggettiva necessità e proporzionalità rispetto a essa.
Per non essere assoggettato alla disciplina di cui all’art. 2596 c.c., quindi, il patto deve presentare una indispensabile connessione causale e funzionale con il rapporto principale, che, qualora ne fosse privato, non consentirebbe di realizzare l’assetto di interessi perseguito dalle parti.
In quest’ottica, vengono, per esempio, considerate lecite, pure se destinate a operare per un periodo superiore al quinquennio e, al limite, per l’intera durata del contratto (anche se eccedente tale arco temporale), le clausole di esclusiva pattuite in favore di una o di entrambe le parti frequentemente inserite in numerosi tipi contrattuali (al di là, ovviamente, dei casi nei quali è la legge stessa a contemplarne espressamente l’ammissibilità, come gli artt. 1567 e 1568 c.c. in materia di somministrazione): tali clausole, pur comportando indubbiamente una restrizione della concorrenza, impedendo a chi ne è vincolato di avviare o intrattenere rapporti con imprese diverse da quella beneficiaria dell’esclusiva e con questa concorrenti, sono da reputarsi legittime in quanto risultino, per esempio, funzionali ad assicurare un adeguato ritorno economico degli investimenti sostenuti o da sostenere in vista dell’esecuzione del contratto. Ma non è da escludere, ovviamente, che il patto di non concorrenza abbia una latitudine più estesa e comporti l’impegno di una parte a non porre in essere attività che si sovrappongano a quelle dell’altra, riducendone la potenziale quota di mercato.
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, deve concludersi nel senso dell’ammissibilità, sia pure non incondizionata, di clausole che introducono limiti pattizi alla concorrenza anche per un periodo eccedente i cinque anni; nella predisposizione del contratto, peraltro, sarà opportuno fornire apposita evidenza delle ragioni per le quali, nell’economia complessiva del rapporto cui si intende dare vita, l’astensione di una parte dallo svolgimento di attività concorrenziale assume un ruolo determinante e dal quale non si può prescindere, pena l’irrimediabile alterazione dell’equilibrio sinallagmatico sotteso alla regolamentazione negoziale convenuta, onde evitare che il patto, anziché essere considerato ancillare rispetto al contratto principale in cui è inserito, possa essere qualificato come autonomo rispetto a esso e, dunque, a tutti gli effetti assoggettato ai limiti (in primo luogo temporali) dettati dall’art. 2596 c.c.
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